IL TRIBUNALE PENALE

    Esaminati  gli atti del procedimento penale n. 757/06 r.g. Trib.,
nei  confronti  di  Halilou  Miloud, imputato del reato p. e p. dagli
artt. 73  e  80  lett.  a)  decreto  del  Presidente della Repubblica
n. 309/1990   perche',   senza  autorizzazione  di  cui  all'art. 17,
deteneva  sostanza  stupefacente del tipo hashish a fine di spaccio e
ne cedeva una stecchetta al minore Duica Bodga;
    Con la recidiva reiterata specifica;
    Arrestato in Vittoria il 13 novembre 2006 ore 21,45;
    Ritenuta  rilevante  e non manifestamente infondata, nel presente
giudizio,  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69,
quarto  comma,  del  codice penale, nella parte in cui prevede che il
giudice non possa operare il giudizio di prevalenza delle circostanze
attenuanti nei confronti di un soggetto recidivo aggravato reiterato,
e  dell'art. 99,  comma quarto, del codice penale, nella parte in cui
rende obbligatorio un aumento fisso della pena per detta categoria di
imputati;

                            O s s e r v a

    1. - Sulla rilevanza della questione.
    In  data  13  novembre  2006 alle ore 21,45 Halilou Miloud veniva
tratto  in  arresto  nella  flagranza  del delitto di cessione di una
stecchetta  di sostanza stupefacente di tipo hashish, al minore Duica
Bodgan.
    Condotto  davanti  questo  giudice  Collegiale  per  la convalida
dell'arresto  relativo  al delitto p. e p. dagli artt. 73 - 80 d.P.R.
n. 309/1990,  meglio descritto in epigrafe, con la recidiva specifica
reiterata  infraquinquennale,  alla  udienza  del  14  novembre 2006,
l'imputato   ammetteva  l'addebito  e  riconosceva  di  avere  ceduto
sostanza  stupefacente  ad un giovane con il quale in altre occasioni
aveva avuto rapporti sempre inerenti al «fumo».
    La  circostanza  veniva  confermata  dal  verbale  di arresto, da
quelli   delle   perquisizione   personali   operate   nei  confronti
dell'imputato e dello acquirente, dal sequestro di sostanza drogante,
rinvenuta   nella   disponibilita'   del  giovane  compratore  e  del
venditore,  tutti  atti  irripetibili  ed  utilizzabili ai fini della
decisione.
    Si  procedeva  alla  convalidava e, su richiesta del p.m., veniva
applicata  nei  confronti  dell'arrestato  la  custodia  cautelare in
carcere.
    Disposto il giudizio direttissimo, l'imputato chiedeva un termine
a  difesa.  Concesso  il  rinvio,  all'udienza  del 17 novembre 2006,
Halioud  Miloud  chiedeva la definizione del procedimento con il rito
abbreviato.
    Il  Collegio  ammetteva  l'imputato  al  rito extradibattimentale
prescelto,  disponeva procedersi nelle forme dell'art. 421 e seguenti
del c.p.p., ed invitava le parti alla discussione.
    Prima   delle  conclusioni  definitive,  il  difensore  sollevava
questione  di  illegittimita'  costituzionale  degli  artt. 69, comma
quarto,  e  99, comma quarto, c.p. per contrasto con gli artt. 3, 25,
27 della Carta costituzionale.
    Il p.m. si associava.
    Tanto  premesso,  osserva  il  decidente come dal certificato del
casellario giudiziale emerge che l'imputato, in data 18 ottobre 2005,
ha  concordato con il p.m. la pena da irrogare per i reati di tentata
rapina,  lesione e tentato furto, ed, in data 20 febbraio 2006, per i
reati   di   furto   e  violazione  delle  norme  sulla  immigrazione
clandestina,  sentenze  divenute definitive il 1° dicembre 2005 ed il
18 marzo 2006.
    Inoltre,  in data 13 giugno 2006, gli veniva applicata la pena di
anni  uno,  mesi  quattro  di reclusione ed Euro 2.000 di multa per i
reati  di  detenzione  illecita di sostanze stupefacenti e violazione
delle  norme  sull'immigrazione clandestina, ritenta la continuazione
tra le due imputazioni.
    Dalla  cronistoria dei precedenti penali dell'imputato, emerge la
rilevanza,  nel  giudizio  de  qua,  della  questione di legittimita'
costituzionale degli artt. 69 e 99 c.p., come recentemente modificati
dalla legge n. 251/2005.
    Invero,  le  condotte  illecite  accertate nel corso del giudizio
comportano  la  applicazione  degli  istituti  della  recidiva  e del
bilanciamento delle circostanze di cui all'art. 69 c.p.
    Per  le  concrete  modalita'  di  commissione  del  fatto, per la
modesta  quantita' della sostanza stupefacente detenuta e ceduta, per
il  basso  principio  attivo in essa contenuto, appare possibile, nel
caso  di  specie,  applicare  la  circostanza attenuante ad efficacia
speciale di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990.
    Detta  norma,  come  molte  altre  del  testo unico in materia di
stupefacenti,  risulta  modificata  a  seguito del recente intervento
legislativo  avvenuto  con  d.l.  n. 272/2005, convertito nella legge
n. 49/2006.
    La  pena prevista dal legislatore per tali ipotesi oscilla da uno
a  sei anni di reclusione, nonche' da Euro 3.000,00 ad Euro 26.000,00
di multa.
    Per  la  fattispecie  base  di cui al comma 1 dell'art. 73 d.P.R.
in cit.,  in  virtu'  della  poc'anzi  citata  modifica in materia di
disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze  psicotrope, la sanzione
risulta  uguale con riferimento sia alle droghe c.d. leggere (hashish
e marijuana in primis), sia a quelle pesanti (ad esempio la cocaina),
e  prevede,  indistintamente,  la reclusione da sei a venti anni e la
multa da Euro 26.000,00 ad Euro 260.000,00.
    Orbene, nella specie, a causa della contestata recidiva reiterata
specifica,   deve   trovare   applicazione  la  disposizione  di  cui
all'art. 99, comma 4, c.p.
    E'  necessario  poi  effettuare  giudizio di bilanciamento tra la
circostanza  attenuante  di  cui  all'  art. 73,  comma 5, d.P.R. n.
309/1990 e la recidiva contestata.
    Ai  sensi  dell'art. 69,  comma  4,  c.p., modificato dalla legge
n. 251/2005,  «Le  disposizioni  del  presente  articolo si applicano
anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i
casi  previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli articoli
111  e  112,  primo  comma,  numero  4),  per  cui  vi  e' divieto di
prevalenza  delle  circostanze  attenuanti sulle ritenute circostanze
aggravanti,  ed  a  qualsiasi altra circostanza per la quale la legge
stabilisca  una  pena  di  specie diversa o determini la misura della
pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».
    Non appare possibile, pertanto, operare il giudizio di prevalenza
delle  circostanze  attenuanti  nelle  ipotesi  di recidiva aggravata
reiterata (art. 99, comma 4, c.p.).
    Quest'ultima   disposizione  comporta  che,  nel  caso  concreto,
potendosi  procedere  soltanto  ad  un giudizio di equivalenza, debba
necessariamente  essere  irrogata una pena detentiva non inferiore ad
anni sei di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa.
    L'effetto  derivante  dall'applicazione delle due norme, a parere
del  Collegio  giudicante,  si  pone in contrasto con alcuni principi
fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale.
    2.  -  Sulla  non  manifesta  infondatezza  della questione e sul
contrasto con le norme della Carta costituzionale.
    In  primo  luogo  si  ritiene  non  manifestamente  infondata  la
questione sotto il profilo della:
        a) violazione del principio di ragionevolezza.
    Esso,  cardine speculare del principio di uguaglianza contemplato
dall'art. 3  della Costituzione, si connota come limite generale alla
discrezionalita'  nella  attivita'  legislativa,  posto  che  compete
esclusivamente  al legislatore determinare la quantita' e la qualita'
della sanzione penale per ciascuna fattispecie.
    Che  il sindacato di costituzionalita' riguardi la corrispondenza
delle  norme  controllate  (leggi  ed  atti  legislativi)  alle norme
costituzionali,  non  solo  dal  punto  di  vista oggettivo, cioe' di
stretta  conformita'  al  precetto,  ma  anche  dal  punto  di  vista
teleologico,   di   conformita'   al   fine   indicato   dalla  norma
costituzionale,  e'  un dato ormai acquisito da tempo e fatto proprio
dalla Corte.
    Controllare  se  una  legge  persegue  un  certo  fine oppure no,
significa  in  certo qual modo sostituirsi all'attivita' politica del
legislatore.
    Negli  ultimi  anni  si  e'  andata facendo strada un'opinione la
quale,  sulla  base  anche  delle  esperienze  di  diritto comparato,
ritiene  che  tutte  le  volte in cui la Carta costituzionale indichi
chiaramente  il  fine  che  la  norma deve perseguire, la legge possa
essere  controllata  anche  sotto il profilo della finalita' che deve
essere raggiunta.
    In  sostanza  si  tratta  di  verificare  che la norma soggetta a
sindacato di costituzionalita' si armonizzi, nel contesto dispositivo
e  sistematico del corpo legislativo in cui si trova inserita, con le
finalita' richiamate dal precetto costituzionale.
    Viene  qui  in  rilievo,  esplicita,  la portata del principio di
riserva di legge in materia penale.
    Da  posizioni che negavano l'ammissibilita' di un sindacato della
Corte  sia  sul  precetto,  sia  sulla  sanzione,  si  e'  passati ad
ammettere  prima  il  sindacato  sul precetto, poi anche quello sulla
sanzione.
    Il   vizio   generale   a   cui   si  fa  riferimento  e'  quello
dell'irragionevolezza   manifesta,   mutuato   dalla   giurisprudenza
amministrativa  in  tema  di  eccesso di potere: solo se «manifesta»,
l'irragionevolezza,  di  per  se'  legata all'insindacabile sfera del
merito  legislativo,  potrebbe  assurgere  a  vero e proprio vizio di
legittimita', sindacabile dalla Corte.
    Orbene,  lo  status  di  recidivo, se puo' certamente rilevare al
fine di una graduazione della pena in relazione alla personalita' del
colpevole,   quale   risulta   desumibile   dagli  elementi  previsti
nell'art. 133  c.p.,  non  puo  giammai  spingersi al punto da creare
ingiustificate,  illogiche  disuguaglianze  tra  imputati di medesimi
reati,  nonche'  irrazionali  scelte  sanzionatorie (cfr. Corte cost.
n. 218/1974; Corte cost. n. 26/1979, n. 103/182 e 409/1989).
    Invero,  proprio  per  evitare  siffatte  storture  le attenuanti
generiche  sono  state previste dal legislatore con riferimento a non
preventivabili   situazioni  che  incidono  sull'apprezzamento  della
«quantita»  del reato e della capacita' di delinquere dell'imputato e
sono  finalizzate al piu' congruo adeguamento della pena in concreto,
potendo,  infatti,  verificarsi  casi  in  cui  la  fattispecie reale
integra  il  delitto,  per  cui va applicata la sanzione prevista dal
legislatore,  ma  la concretezza della vicenda richiede un intervento
correttivo  del  giudice  che renda, di fatto, la pena rispettosa del
principio  di  ragionevolezza  (art. 3  cost.  )  e  della  finalita'
costituzionalizzata sub art. 27, comma 3 cost., di cui la «congruita»
costituisce  elemento  essenziale  (Cassazione  penale,  sez.  VI, 10
aprile 1995, n. 7946, Faletto e altro, Cass. pen. 1996, 3640).
    Al   riguardo,   con  riferimento  al  caso  concreto  sottoposto
all'esame del Collegio, occorre evidenziare un particolare profilo di
illegittimita' costituzionale della norma per gli effetti che essa e'
in grado di cagionare.
    La  mancata  modifica  dell'art. 74  d.P.R.  n. 309/1990 da parte
della  legge  n. 49/2006,  in  particolare  del  comma 6 della citata
norma,  determina,  invero, inspiegabili ed ingiustificate disparita'
di  trattamento  sanzionatorio  allo interno del medesimo testo unico
sugli  stupefacenti  per  fatti  di  reato il cui disvalore giuridico
appare notevolmente diverso.
    Nell'ipotesi di associazione per fatti di lieve entita', ex comma
5  dell'art. 73,  vi e' una vera e propria configurazione autonoma di
reato.
    Infatti  l'art. 74, comma 6 non prevede una semplice riduzione di
pena  rispetto  alle ipotesi associative piu' gravi previste in detto
articolo  -  commi  1 e 2, ma opera un generale richiamo all'art. 416
c.p.,  che  non  puo'  considerarsi  soltanto finalizzato all'entita'
della pena.
    Il legislatore, tenuto conto del minore allarme sociale suscitato
da  tali  fatti  e  della minore pericolosita' degli autori dei fatti
previsti   dall'art. 73,  comma  5,  d.P.R.  n. 309/1990,  ha  voluto
riqualificare   l'associazione   dedita   allo  spaccio  di  sostanze
stupefacenti  come  semplice  associazione  per  delinquere  prevista
dall'art.  416  c.p.», (cosi' Cass. 16 marzo 2000 n. 1483, De Santis,
in Ced Cass. rv. 216045).
    Invece,  nel  caso  in  esame,  la condotta dell'imputato, per un
episodio  di  cessione  di  una  modestissima  quantita'  di hashish,
sarebbe punita con la pena della reclusione non inferiore a sei anni,
a  causa  della  natura circostanziale dell'ipotesi di cui al comma 5
dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990 e del divieto di prevalenza di detta
circostanza,  mentre  la  condotta  del  partecipe o del promotore di
un'associazione   dedita   al   narcotraffico,   anche   di  sostanze
stupefacenti   pesanti,  per  fatti  di  lieve  entita',  e'  punita,
rispettivamente,  con  la  reclusione da uno a cinque anni e da tre a
sette anni.
    Il  medesimo  imputato  recidivo  reiterato,  dunque,  se  avesse
commesso  la  piu'  grave  ipotesi delittuosa del delitto associativo
previsto dall'art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/1990, sarebbe passibile
di una pena che non supera la misura di anni sette di reclusione (nel
caso  di  promozione  o costituzione od organizzazione del sodalizio)
ovvero di anni cinque (nel caso di mera partecipazione).
    Palese  appare,  ad  avviso del Collgio giudicante e con riguardo
allo   illustrato   profilo,   l'irragionevolezza   della  disciplina
derivante  dal  combinato  disposto  degli  artt. 69  e 99 del codice
penale  per  le  ipotesi di reati commessi da soggetti ai quali viene
contestata la recidiva aggravata reiterata.
    Invero,   la  legge  n. 251/2005,  modificando  dette  norme,  ed
incidendo  cosi' fortemente sulla disciplina del potere discrezionale
del  giudice  di irrogare la pena, ha superato il limite invalicabile
tracciato dalla Corte costituzionale nelle sopra menzionate sentenze,
ovvero  che  «il  principio  di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo
comma,  Cost.,  esige  che la pena sia proporzionata al disvalore del
fatto  illecito  commesso,  in  modo  che  il  sistema  sanzionatorio
adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale ed a quella di
tutela  delle  posizioni  individuali;  e che le valutazioni all'uopo
necessarie   rientrano   nell'ambito  del  potere  discrezionale  del
legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo
della  legittimita'  costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia
stato   rispettato  il  limite  della  ragionevolezza»  (Corte  cost.
n. 409/1989).
    Nel caso in esame il disposto sia dell'art. 69, comma quarto, del
codice penale, sia dell'art. 99, comma quarto, del medesimo codice, a
seguito  delle  modifiche  introdotte  dalla  legge  5  dicembre 2005
n. 251,    risultano    in   contrasto   anche   con   il   principio
dell'inviolabilita' del diritto di difesa, tutelato dal 24 Cost.
    Si  rileva, infatti, che il meccanismo sanzionatorio previsto dal
legislatore  per  le  ipotesi in esame, a cagione della pena edittale
minima  irrogabile,  non  inferiore  ad  anni sei, priva, ab origine,
l'imputato   della   possibilita'   di  accedere  al  patteggiamento,
ammissibile,   invece,   per   altre   ipotesi,   pure  riconducibili
all'art. 73,   d.P.R.   n. 309/1990   e   non  espressamente  escluse
dall'art. 444  c.p.p., quando il bilanciamento delle circostanze e la
riduzione  per il rito consenta di irrogare una pena non superiore ad
anni cinque.
    Profili  di illegittimita' delle richiamate norme sono rilevabili
anche   con   riferimento  ai  parametri  costituzionali  di  seguito
evidenziate;
        b) Violazione del principio di offensivita'.
    Esso,    ricavabile   dall'art. 25   Costituzione,   si   colloca
nell'orbita  della  c.d.  concezione  realistica dell'illecito penale
secondo  cui  il reato, in concreto, e' un fatto umano conforme ad un
modello   descritto   dall'ordinamento   e  lesivo  di  un  interesse
penalmente protetto.
    Pertanto,  senza  la  lesione o almeno la messa in pericolo dello
specifico interesse tutelato dalla norma incriminatrice, il reato non
sussiste.
    Cio'   significa   che,  nel  nostro  ordinamento,  il  requisito
dell'offesa  non  e'  considerato  come  necessariamente insito in un
fatto  che  riproduca i connotati propri della fattispecie criminosa,
richiedendosi  che  il  fatto,  oltre a possedere i requisiti formali
tipici,  si  presenti,  nel  caso concreto, produttivo di conseguenze
lesive.
    In  quest'ordine  di  idee  si  e' sottolineato, in dottrina e in
giurisprudenza,  come  un azione, astrattamente e formalmente tipica,
possa di fatto essere inidonea a ledere l'interesse protetto.
    Il  principio  di offensivita' ha trovato espresso riconoscimento
sia  nella  giurisprudenza  della  Corte costituzionale che in quella
della Corte di cassazione.
    La  Prima  ha piu' volte affermato la rilevanza di tale principio
asserendo  che esso costituisce un canone ermeneutico di fondamentale
importanza  (cfr.  in tal senso C. cost., 19-26 marzo 1986, n. 62, in
materia  di  armi ed esplosivi; C. cost. 26 settembre-6 ottobre 1988,
n. 957, in tema di sottrazione di minorenni; C. cost., 24 luglio 1995
n. 360,  in  Foro  it., 1995, I, c. 3086 s.; C. cost., 27 marzo 1992,
n. 133,  ivi,  1992,  I,  c. 2914 s., entrambe in materia di sostanze
stupefacenti).
    L'applicazione di questo criterio interpretativo importa, secondo
il  giudice  delle  leggi,  in primo luogo, l'individuazione del bene
tutelato  argomentando «dal sistema tutto e dalla norma particolare»;
e,  in  secondo  luogo,  «la valutazione dell'effettiva lesivita' del
fatto  anche  alla  luce  di elementi successivi alla commissione del
reato».
    Anche  le Sezioni unite si sono richiamate al principio affermato
dalla  giurisprudenza  costituzionale secondo il quale ove la singola
condotta  sia  assolutamente  inidonea  a  porre a repentaglio i beni
giuridici  tutelati, viene meno la riconducibilita' della fattispecie
concreta  a quella astratta poiche' le indispensabili connotazioni di
offensivita'  di  quest'ultima, implicano, di riflesso, la necessita'
che,  anche  in  concreto,  l'offensivita' sia ravvisabile, almeno in
grado minimo, nella singola condotta dell'agente.
    In  difetto  di  cio'  la  fattispecie  verrebbe a refluire nella
figura del reato impossibile (Sez. un., 2 aprile 1998, Kremi, in Foro
it.,  1998,  II,  c.  758,  con  nota  di  Amato, Cessione di dose di
sostanza   stupefacente   priva   di   efficacia   drogante  e  reato
impossibile: intervengono le Sezioni unite).
    In  questa prospettiva si collocano varie pronunce della Corte di
cassazione  in materia di reati di falso o di sostanze stupefacenti o
di alimenti.
    Nell'alveo   di  tale  indirizzo  si  e'  affermato,  poi,  dalla
giurisprudenza  di  merito,  che  l'interpretazione teleologica della
fattispecie  incriminatrice,  incentrata  sulla  considerazione degli
scopi  di tutela perseguiti dal legislatore, e' prevista dall'art. 12
prel.
    Rispetto  all'impostazione  teorica  richiamata il legislatore ha
compiuto  un  ulteriore  passo  in  avanti, dettando l'art. 27 d.P.R.
n. 22  settembre  1988,  n. 448  (disposizioni  sul processo penale a
carico  di  minorenni),  con  il  quale  ha  posto  a parametro della
valutazione  di  «irrilevanza del fatto» i criteri della tenuita' del
fatto e dell'occasionalita' del comportamento.
    Con  cio'  stabilendo  che  anche  fatti in se' non assolutamente
inidonei  ad  offendere il bene o interesse protetto, in presenza dei
requisiti indicati, possano essere dichiarati non punibili.
    In  tale  filone  si  colloca  ancora la norma di cui all'art. 34
d.lgs. n. 74 del 2000, sul giudice di pace.
    Pertanto,     sulla    scorta    degli    esposti    orientamenti
giurisprudenziali  e  delle  enunciate  disposizioni  precettive,  e'
possibile  affermare  come  penalmente  irrilevante  il fatto che pur
corrispondendo alla fattispecie astratta prevista dal legislatore, si
sia  rivelato  in  concreto  inidoneo,  sulla base di una valutazione
informata  ai criteri indicati dalla citata disposizione di legge, ad
offendere in misura apprezzabile l'oggetto giuridico della norma.
    In  assonanza  logica  con  siffatta  ampia  premessa, si pone il
rilievo  che  la  sottolineata pregnanza degli elementi oggettivi del
reato,  pur  valorizzando  la  condotta  ascritta  allo imputato, non
trascura i profili soggettivi.
    Infatti,  la recidiva costituisce indice della maggiore capacita'
a  delinquere  del  reo  e,  per  questo, rileva sia sotto il profilo
retributivo, come sotto quello preventivo.
    La  ratio  della  norma  e'  quella di far conseguire soltanto un
aumento  di pena nei confronti di soggetti, che mostrano una maggiore
pericolosita' sociale.
    Ma  cio'  non puo' mai significare che la condotta illecita posta
in  essere  da  persone  gia'  condannate per altri reati, sia avulsa
totalmente  dal  nuovo  fatto  delittuoso commesso che va valutato in
tutte le sue componenti oggettive e soggettive.
    E  cio'  perche'  l'art.  133  c.p.,  secondo  gli indici in esso
indicati, consente di adeguare la sanzione al fatto.
    Di tal che' impedire la valutazione concreta della condotta posta
in essere dal recidivo ed agganciare alla sua condizione personale il
divieto  di prevalenza delle circostanze attenuanti ovvero imporre un
aumento  fisso di della sanzione, vuol dire vulnerare il principio di
materialita' del diritto penale.
    C) Vanificazione del fine rieducativi della pena.
    Un  ulteriore  e  non  meno  importante  principio  a cui occorre
rifarsi  e'  quello  della funzione della pena, previsto dall'art. 27
Cost.,   il   quale   assegna  alla  sanzione  penale  una  finalita'
rieducativa,  laddove prevede che essa deve tendere alla rieducazione
del condannato.
    Al  riguardo,  la Corte, ritiene che tale finalita' di emenda non
sia  limitata alla sola fase dell'esecuzione ma operi gia' al momento
della  previsione  normativa  della  fattispecie  penale  e  del  suo
trattamento sanzionatorio.
    (Si  confrontino  in  proposito  le  sentenze  in materia di leva
militare  tra  cui  Corte  cost., 28 luglio 1993, n. 343, Cospito, in
Foro it., 1994, I, c. 342, con nota di Sassi e Sciarretta).
    Si  tratta  di  un'affermazione  importante  che,  investendo  il
rapporto  di proporzionalita' tra qualita' e quantita' della sanzione
penale  da un lato, e lesione al bene giuridico, dall' altro, porta a
considerare  costituzionalmente  ilegittime  tutte quelle fattispecie
penali che, prevedendo una sanzione manifestamente eccessiva rispetto
al  disvalore  dell'illecito,  producano  una «vanificazione del fine
rieducativo  della pena prescritto dall'art. 27 comma 3 Cost.» (Cosi'
sempre  in tema di leva militare Corte cost., 18 luglio 1989, n. 409,
Neri,  in  Foro  it.,  1990, I, c. 37, con nota di Messina, Romboli e
Rossi).
    Il  principio  di  proporzione  viene  quindi a costituire per la
Corte  uno  dei  criteri  guida  che presiedono allo stesso esercizio
della  potesta' legislativa, vincolando il legislatore nell'attivita'
di predeterminazione del tipo e della misura edittale della pena.
    Secondo  autorevole dottrina gli elementi base per determinare, a
livello  legislativo,  la  gravita'  del  fatto e stabilire l'entita'
della sanzione penale, sono:
        sotto il profilo ogettivo:
          a)  il  rango  dei  beni  aggrediti  secondo  la  gerarchia
desumibile  dalla  Costituzione  e  dalla realta' socio-culturale del
momento;
          b) il grado e la qualita' dell'offesa;
        sotto il profilo soggettivo:
          c) il tipo di colpevolezza.
    La  proporzione tra fatto tipico e sanzione penale viene quindi a
costituire  «una premessa ineliminabile dell'accettazione psicologica
di un trattamento diretto a favorire nel condannato il recupero della
capacita' di apprezzare i valori tutelati nell'ordinamento».
    Tale  principio  di proporzionalita' viene quindi a costituire il
limite logico-giuridico del potere punitivo dello Stato di diritto.
    Orbene  escludere  il  giudizio  di  prevalenza  tra  circostanze
attenuanti  ed  aggravanti,  in ipotesi di reati commessi da recidivi
reiterati,  significa  ignorare  la concreta lesivita' della condotta
posta  in  essere ed infliggere la pena soltanto con riferimento alla
condizione  personale  dell'imputato  e non per la effettiva gravita'
del   fatto   e/o   per  1'  intensita'  del  dolo,  con  conseguente
vanificazione  della funzione emendatrice cui la sanzione penale deve
in linea tendenziale mirare.
    Non  viene,  in  tal  modo,  salvaguardata  nessuna delle istanze
sottese alla irrogazione della pena al colpevole:
        non quella della retribuzione;
        non quella della prevenzione;
        non  quella dell'emenda del condannato, che difficilmente, in
siffatta   situazione,   sara'  indotto  a  far  ricorso  a  condotte
risarcitorie che possano consentirgli ulteriori riduzioni di pena.