IL TRIBUNALE PENALE Esaminati gli atti del procedimento penale n. 757/06 r.g. Trib., nei confronti di Halilou Miloud, imputato del reato p. e p. dagli artt. 73 e 80 lett. a) decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 perche', senza autorizzazione di cui all'art. 17, deteneva sostanza stupefacente del tipo hashish a fine di spaccio e ne cedeva una stecchetta al minore Duica Bodga; Con la recidiva reiterata specifica; Arrestato in Vittoria il 13 novembre 2006 ore 21,45; Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, nel presente giudizio, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede che il giudice non possa operare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti nei confronti di un soggetto recidivo aggravato reiterato, e dell'art. 99, comma quarto, del codice penale, nella parte in cui rende obbligatorio un aumento fisso della pena per detta categoria di imputati; O s s e r v a 1. - Sulla rilevanza della questione. In data 13 novembre 2006 alle ore 21,45 Halilou Miloud veniva tratto in arresto nella flagranza del delitto di cessione di una stecchetta di sostanza stupefacente di tipo hashish, al minore Duica Bodgan. Condotto davanti questo giudice Collegiale per la convalida dell'arresto relativo al delitto p. e p. dagli artt. 73 - 80 d.P.R. n. 309/1990, meglio descritto in epigrafe, con la recidiva specifica reiterata infraquinquennale, alla udienza del 14 novembre 2006, l'imputato ammetteva l'addebito e riconosceva di avere ceduto sostanza stupefacente ad un giovane con il quale in altre occasioni aveva avuto rapporti sempre inerenti al «fumo». La circostanza veniva confermata dal verbale di arresto, da quelli delle perquisizione personali operate nei confronti dell'imputato e dello acquirente, dal sequestro di sostanza drogante, rinvenuta nella disponibilita' del giovane compratore e del venditore, tutti atti irripetibili ed utilizzabili ai fini della decisione. Si procedeva alla convalidava e, su richiesta del p.m., veniva applicata nei confronti dell'arrestato la custodia cautelare in carcere. Disposto il giudizio direttissimo, l'imputato chiedeva un termine a difesa. Concesso il rinvio, all'udienza del 17 novembre 2006, Halioud Miloud chiedeva la definizione del procedimento con il rito abbreviato. Il Collegio ammetteva l'imputato al rito extradibattimentale prescelto, disponeva procedersi nelle forme dell'art. 421 e seguenti del c.p.p., ed invitava le parti alla discussione. Prima delle conclusioni definitive, il difensore sollevava questione di illegittimita' costituzionale degli artt. 69, comma quarto, e 99, comma quarto, c.p. per contrasto con gli artt. 3, 25, 27 della Carta costituzionale. Il p.m. si associava. Tanto premesso, osserva il decidente come dal certificato del casellario giudiziale emerge che l'imputato, in data 18 ottobre 2005, ha concordato con il p.m. la pena da irrogare per i reati di tentata rapina, lesione e tentato furto, ed, in data 20 febbraio 2006, per i reati di furto e violazione delle norme sulla immigrazione clandestina, sentenze divenute definitive il 1° dicembre 2005 ed il 18 marzo 2006. Inoltre, in data 13 giugno 2006, gli veniva applicata la pena di anni uno, mesi quattro di reclusione ed Euro 2.000 di multa per i reati di detenzione illecita di sostanze stupefacenti e violazione delle norme sull'immigrazione clandestina, ritenta la continuazione tra le due imputazioni. Dalla cronistoria dei precedenti penali dell'imputato, emerge la rilevanza, nel giudizio de qua, della questione di legittimita' costituzionale degli artt. 69 e 99 c.p., come recentemente modificati dalla legge n. 251/2005. Invero, le condotte illecite accertate nel corso del giudizio comportano la applicazione degli istituti della recidiva e del bilanciamento delle circostanze di cui all'art. 69 c.p. Per le concrete modalita' di commissione del fatto, per la modesta quantita' della sostanza stupefacente detenuta e ceduta, per il basso principio attivo in essa contenuto, appare possibile, nel caso di specie, applicare la circostanza attenuante ad efficacia speciale di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990. Detta norma, come molte altre del testo unico in materia di stupefacenti, risulta modificata a seguito del recente intervento legislativo avvenuto con d.l. n. 272/2005, convertito nella legge n. 49/2006. La pena prevista dal legislatore per tali ipotesi oscilla da uno a sei anni di reclusione, nonche' da Euro 3.000,00 ad Euro 26.000,00 di multa. Per la fattispecie base di cui al comma 1 dell'art. 73 d.P.R. in cit., in virtu' della poc'anzi citata modifica in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, la sanzione risulta uguale con riferimento sia alle droghe c.d. leggere (hashish e marijuana in primis), sia a quelle pesanti (ad esempio la cocaina), e prevede, indistintamente, la reclusione da sei a venti anni e la multa da Euro 26.000,00 ad Euro 260.000,00. Orbene, nella specie, a causa della contestata recidiva reiterata specifica, deve trovare applicazione la disposizione di cui all'art. 99, comma 4, c.p. E' necessario poi effettuare giudizio di bilanciamento tra la circostanza attenuante di cui all' art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990 e la recidiva contestata. Ai sensi dell'art. 69, comma 4, c.p., modificato dalla legge n. 251/2005, «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi e' divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato». Non appare possibile, pertanto, operare il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti nelle ipotesi di recidiva aggravata reiterata (art. 99, comma 4, c.p.). Quest'ultima disposizione comporta che, nel caso concreto, potendosi procedere soltanto ad un giudizio di equivalenza, debba necessariamente essere irrogata una pena detentiva non inferiore ad anni sei di reclusione ed Euro 26.000,00 di multa. L'effetto derivante dall'applicazione delle due norme, a parere del Collegio giudicante, si pone in contrasto con alcuni principi fondamentali sanciti dalla Carta costituzionale. 2. - Sulla non manifesta infondatezza della questione e sul contrasto con le norme della Carta costituzionale. In primo luogo si ritiene non manifestamente infondata la questione sotto il profilo della: a) violazione del principio di ragionevolezza. Esso, cardine speculare del principio di uguaglianza contemplato dall'art. 3 della Costituzione, si connota come limite generale alla discrezionalita' nella attivita' legislativa, posto che compete esclusivamente al legislatore determinare la quantita' e la qualita' della sanzione penale per ciascuna fattispecie. Che il sindacato di costituzionalita' riguardi la corrispondenza delle norme controllate (leggi ed atti legislativi) alle norme costituzionali, non solo dal punto di vista oggettivo, cioe' di stretta conformita' al precetto, ma anche dal punto di vista teleologico, di conformita' al fine indicato dalla norma costituzionale, e' un dato ormai acquisito da tempo e fatto proprio dalla Corte. Controllare se una legge persegue un certo fine oppure no, significa in certo qual modo sostituirsi all'attivita' politica del legislatore. Negli ultimi anni si e' andata facendo strada un'opinione la quale, sulla base anche delle esperienze di diritto comparato, ritiene che tutte le volte in cui la Carta costituzionale indichi chiaramente il fine che la norma deve perseguire, la legge possa essere controllata anche sotto il profilo della finalita' che deve essere raggiunta. In sostanza si tratta di verificare che la norma soggetta a sindacato di costituzionalita' si armonizzi, nel contesto dispositivo e sistematico del corpo legislativo in cui si trova inserita, con le finalita' richiamate dal precetto costituzionale. Viene qui in rilievo, esplicita, la portata del principio di riserva di legge in materia penale. Da posizioni che negavano l'ammissibilita' di un sindacato della Corte sia sul precetto, sia sulla sanzione, si e' passati ad ammettere prima il sindacato sul precetto, poi anche quello sulla sanzione. Il vizio generale a cui si fa riferimento e' quello dell'irragionevolezza manifesta, mutuato dalla giurisprudenza amministrativa in tema di eccesso di potere: solo se «manifesta», l'irragionevolezza, di per se' legata all'insindacabile sfera del merito legislativo, potrebbe assurgere a vero e proprio vizio di legittimita', sindacabile dalla Corte. Orbene, lo status di recidivo, se puo' certamente rilevare al fine di una graduazione della pena in relazione alla personalita' del colpevole, quale risulta desumibile dagli elementi previsti nell'art. 133 c.p., non puo giammai spingersi al punto da creare ingiustificate, illogiche disuguaglianze tra imputati di medesimi reati, nonche' irrazionali scelte sanzionatorie (cfr. Corte cost. n. 218/1974; Corte cost. n. 26/1979, n. 103/182 e 409/1989). Invero, proprio per evitare siffatte storture le attenuanti generiche sono state previste dal legislatore con riferimento a non preventivabili situazioni che incidono sull'apprezzamento della «quantita» del reato e della capacita' di delinquere dell'imputato e sono finalizzate al piu' congruo adeguamento della pena in concreto, potendo, infatti, verificarsi casi in cui la fattispecie reale integra il delitto, per cui va applicata la sanzione prevista dal legislatore, ma la concretezza della vicenda richiede un intervento correttivo del giudice che renda, di fatto, la pena rispettosa del principio di ragionevolezza (art. 3 cost. ) e della finalita' costituzionalizzata sub art. 27, comma 3 cost., di cui la «congruita» costituisce elemento essenziale (Cassazione penale, sez. VI, 10 aprile 1995, n. 7946, Faletto e altro, Cass. pen. 1996, 3640). Al riguardo, con riferimento al caso concreto sottoposto all'esame del Collegio, occorre evidenziare un particolare profilo di illegittimita' costituzionale della norma per gli effetti che essa e' in grado di cagionare. La mancata modifica dell'art. 74 d.P.R. n. 309/1990 da parte della legge n. 49/2006, in particolare del comma 6 della citata norma, determina, invero, inspiegabili ed ingiustificate disparita' di trattamento sanzionatorio allo interno del medesimo testo unico sugli stupefacenti per fatti di reato il cui disvalore giuridico appare notevolmente diverso. Nell'ipotesi di associazione per fatti di lieve entita', ex comma 5 dell'art. 73, vi e' una vera e propria configurazione autonoma di reato. Infatti l'art. 74, comma 6 non prevede una semplice riduzione di pena rispetto alle ipotesi associative piu' gravi previste in detto articolo - commi 1 e 2, ma opera un generale richiamo all'art. 416 c.p., che non puo' considerarsi soltanto finalizzato all'entita' della pena. Il legislatore, tenuto conto del minore allarme sociale suscitato da tali fatti e della minore pericolosita' degli autori dei fatti previsti dall'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990, ha voluto riqualificare l'associazione dedita allo spaccio di sostanze stupefacenti come semplice associazione per delinquere prevista dall'art. 416 c.p.», (cosi' Cass. 16 marzo 2000 n. 1483, De Santis, in Ced Cass. rv. 216045). Invece, nel caso in esame, la condotta dell'imputato, per un episodio di cessione di una modestissima quantita' di hashish, sarebbe punita con la pena della reclusione non inferiore a sei anni, a causa della natura circostanziale dell'ipotesi di cui al comma 5 dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990 e del divieto di prevalenza di detta circostanza, mentre la condotta del partecipe o del promotore di un'associazione dedita al narcotraffico, anche di sostanze stupefacenti pesanti, per fatti di lieve entita', e' punita, rispettivamente, con la reclusione da uno a cinque anni e da tre a sette anni. Il medesimo imputato recidivo reiterato, dunque, se avesse commesso la piu' grave ipotesi delittuosa del delitto associativo previsto dall'art. 74, comma 6, d.P.R. n. 309/1990, sarebbe passibile di una pena che non supera la misura di anni sette di reclusione (nel caso di promozione o costituzione od organizzazione del sodalizio) ovvero di anni cinque (nel caso di mera partecipazione). Palese appare, ad avviso del Collgio giudicante e con riguardo allo illustrato profilo, l'irragionevolezza della disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 69 e 99 del codice penale per le ipotesi di reati commessi da soggetti ai quali viene contestata la recidiva aggravata reiterata. Invero, la legge n. 251/2005, modificando dette norme, ed incidendo cosi' fortemente sulla disciplina del potere discrezionale del giudice di irrogare la pena, ha superato il limite invalicabile tracciato dalla Corte costituzionale nelle sopra menzionate sentenze, ovvero che «il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia, nel contempo, alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; e che le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita' costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza» (Corte cost. n. 409/1989). Nel caso in esame il disposto sia dell'art. 69, comma quarto, del codice penale, sia dell'art. 99, comma quarto, del medesimo codice, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251, risultano in contrasto anche con il principio dell'inviolabilita' del diritto di difesa, tutelato dal 24 Cost. Si rileva, infatti, che il meccanismo sanzionatorio previsto dal legislatore per le ipotesi in esame, a cagione della pena edittale minima irrogabile, non inferiore ad anni sei, priva, ab origine, l'imputato della possibilita' di accedere al patteggiamento, ammissibile, invece, per altre ipotesi, pure riconducibili all'art. 73, d.P.R. n. 309/1990 e non espressamente escluse dall'art. 444 c.p.p., quando il bilanciamento delle circostanze e la riduzione per il rito consenta di irrogare una pena non superiore ad anni cinque. Profili di illegittimita' delle richiamate norme sono rilevabili anche con riferimento ai parametri costituzionali di seguito evidenziate; b) Violazione del principio di offensivita'. Esso, ricavabile dall'art. 25 Costituzione, si colloca nell'orbita della c.d. concezione realistica dell'illecito penale secondo cui il reato, in concreto, e' un fatto umano conforme ad un modello descritto dall'ordinamento e lesivo di un interesse penalmente protetto. Pertanto, senza la lesione o almeno la messa in pericolo dello specifico interesse tutelato dalla norma incriminatrice, il reato non sussiste. Cio' significa che, nel nostro ordinamento, il requisito dell'offesa non e' considerato come necessariamente insito in un fatto che riproduca i connotati propri della fattispecie criminosa, richiedendosi che il fatto, oltre a possedere i requisiti formali tipici, si presenti, nel caso concreto, produttivo di conseguenze lesive. In quest'ordine di idee si e' sottolineato, in dottrina e in giurisprudenza, come un azione, astrattamente e formalmente tipica, possa di fatto essere inidonea a ledere l'interesse protetto. Il principio di offensivita' ha trovato espresso riconoscimento sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale che in quella della Corte di cassazione. La Prima ha piu' volte affermato la rilevanza di tale principio asserendo che esso costituisce un canone ermeneutico di fondamentale importanza (cfr. in tal senso C. cost., 19-26 marzo 1986, n. 62, in materia di armi ed esplosivi; C. cost. 26 settembre-6 ottobre 1988, n. 957, in tema di sottrazione di minorenni; C. cost., 24 luglio 1995 n. 360, in Foro it., 1995, I, c. 3086 s.; C. cost., 27 marzo 1992, n. 133, ivi, 1992, I, c. 2914 s., entrambe in materia di sostanze stupefacenti). L'applicazione di questo criterio interpretativo importa, secondo il giudice delle leggi, in primo luogo, l'individuazione del bene tutelato argomentando «dal sistema tutto e dalla norma particolare»; e, in secondo luogo, «la valutazione dell'effettiva lesivita' del fatto anche alla luce di elementi successivi alla commissione del reato». Anche le Sezioni unite si sono richiamate al principio affermato dalla giurisprudenza costituzionale secondo il quale ove la singola condotta sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio i beni giuridici tutelati, viene meno la riconducibilita' della fattispecie concreta a quella astratta poiche' le indispensabili connotazioni di offensivita' di quest'ultima, implicano, di riflesso, la necessita' che, anche in concreto, l'offensivita' sia ravvisabile, almeno in grado minimo, nella singola condotta dell'agente. In difetto di cio' la fattispecie verrebbe a refluire nella figura del reato impossibile (Sez. un., 2 aprile 1998, Kremi, in Foro it., 1998, II, c. 758, con nota di Amato, Cessione di dose di sostanza stupefacente priva di efficacia drogante e reato impossibile: intervengono le Sezioni unite). In questa prospettiva si collocano varie pronunce della Corte di cassazione in materia di reati di falso o di sostanze stupefacenti o di alimenti. Nell'alveo di tale indirizzo si e' affermato, poi, dalla giurisprudenza di merito, che l'interpretazione teleologica della fattispecie incriminatrice, incentrata sulla considerazione degli scopi di tutela perseguiti dal legislatore, e' prevista dall'art. 12 prel. Rispetto all'impostazione teorica richiamata il legislatore ha compiuto un ulteriore passo in avanti, dettando l'art. 27 d.P.R. n. 22 settembre 1988, n. 448 (disposizioni sul processo penale a carico di minorenni), con il quale ha posto a parametro della valutazione di «irrilevanza del fatto» i criteri della tenuita' del fatto e dell'occasionalita' del comportamento. Con cio' stabilendo che anche fatti in se' non assolutamente inidonei ad offendere il bene o interesse protetto, in presenza dei requisiti indicati, possano essere dichiarati non punibili. In tale filone si colloca ancora la norma di cui all'art. 34 d.lgs. n. 74 del 2000, sul giudice di pace. Pertanto, sulla scorta degli esposti orientamenti giurisprudenziali e delle enunciate disposizioni precettive, e' possibile affermare come penalmente irrilevante il fatto che pur corrispondendo alla fattispecie astratta prevista dal legislatore, si sia rivelato in concreto inidoneo, sulla base di una valutazione informata ai criteri indicati dalla citata disposizione di legge, ad offendere in misura apprezzabile l'oggetto giuridico della norma. In assonanza logica con siffatta ampia premessa, si pone il rilievo che la sottolineata pregnanza degli elementi oggettivi del reato, pur valorizzando la condotta ascritta allo imputato, non trascura i profili soggettivi. Infatti, la recidiva costituisce indice della maggiore capacita' a delinquere del reo e, per questo, rileva sia sotto il profilo retributivo, come sotto quello preventivo. La ratio della norma e' quella di far conseguire soltanto un aumento di pena nei confronti di soggetti, che mostrano una maggiore pericolosita' sociale. Ma cio' non puo' mai significare che la condotta illecita posta in essere da persone gia' condannate per altri reati, sia avulsa totalmente dal nuovo fatto delittuoso commesso che va valutato in tutte le sue componenti oggettive e soggettive. E cio' perche' l'art. 133 c.p., secondo gli indici in esso indicati, consente di adeguare la sanzione al fatto. Di tal che' impedire la valutazione concreta della condotta posta in essere dal recidivo ed agganciare alla sua condizione personale il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti ovvero imporre un aumento fisso di della sanzione, vuol dire vulnerare il principio di materialita' del diritto penale. C) Vanificazione del fine rieducativi della pena. Un ulteriore e non meno importante principio a cui occorre rifarsi e' quello della funzione della pena, previsto dall'art. 27 Cost., il quale assegna alla sanzione penale una finalita' rieducativa, laddove prevede che essa deve tendere alla rieducazione del condannato. Al riguardo, la Corte, ritiene che tale finalita' di emenda non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione ma operi gia' al momento della previsione normativa della fattispecie penale e del suo trattamento sanzionatorio. (Si confrontino in proposito le sentenze in materia di leva militare tra cui Corte cost., 28 luglio 1993, n. 343, Cospito, in Foro it., 1994, I, c. 342, con nota di Sassi e Sciarretta). Si tratta di un'affermazione importante che, investendo il rapporto di proporzionalita' tra qualita' e quantita' della sanzione penale da un lato, e lesione al bene giuridico, dall' altro, porta a considerare costituzionalmente ilegittime tutte quelle fattispecie penali che, prevedendo una sanzione manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito, producano una «vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27 comma 3 Cost.» (Cosi' sempre in tema di leva militare Corte cost., 18 luglio 1989, n. 409, Neri, in Foro it., 1990, I, c. 37, con nota di Messina, Romboli e Rossi). Il principio di proporzione viene quindi a costituire per la Corte uno dei criteri guida che presiedono allo stesso esercizio della potesta' legislativa, vincolando il legislatore nell'attivita' di predeterminazione del tipo e della misura edittale della pena. Secondo autorevole dottrina gli elementi base per determinare, a livello legislativo, la gravita' del fatto e stabilire l'entita' della sanzione penale, sono: sotto il profilo ogettivo: a) il rango dei beni aggrediti secondo la gerarchia desumibile dalla Costituzione e dalla realta' socio-culturale del momento; b) il grado e la qualita' dell'offesa; sotto il profilo soggettivo: c) il tipo di colpevolezza. La proporzione tra fatto tipico e sanzione penale viene quindi a costituire «una premessa ineliminabile dell'accettazione psicologica di un trattamento diretto a favorire nel condannato il recupero della capacita' di apprezzare i valori tutelati nell'ordinamento». Tale principio di proporzionalita' viene quindi a costituire il limite logico-giuridico del potere punitivo dello Stato di diritto. Orbene escludere il giudizio di prevalenza tra circostanze attenuanti ed aggravanti, in ipotesi di reati commessi da recidivi reiterati, significa ignorare la concreta lesivita' della condotta posta in essere ed infliggere la pena soltanto con riferimento alla condizione personale dell'imputato e non per la effettiva gravita' del fatto e/o per 1' intensita' del dolo, con conseguente vanificazione della funzione emendatrice cui la sanzione penale deve in linea tendenziale mirare. Non viene, in tal modo, salvaguardata nessuna delle istanze sottese alla irrogazione della pena al colpevole: non quella della retribuzione; non quella della prevenzione; non quella dell'emenda del condannato, che difficilmente, in siffatta situazione, sara' indotto a far ricorso a condotte risarcitorie che possano consentirgli ulteriori riduzioni di pena.